Considerata una delle principali figure della letteratura del XX secolo, oltre che attivamente impegnata nella lotta per la parità di genere, Virginia Woolf ha rivoluzionato, insieme ad autori come James Joyce, Marcel Proust e Italo Svevo, il modo di scrivere e di narrare.
I suoi romanzi infatti sono caratterizzati dall’assenza di un narratore esterno, per lasciare spazio al punto di vista dei personaggi: l’autrice ci porta dentro la testa dei suoi protagonisti, dove i pensieri scorrono come un flusso continuo (si parla infatti di flusso di coscienza, in inglese stream of consciousness).
Il tempo è caratterizzato dall’assenza di una cronologia lineare, la narrazione infatti procede attraverso spostamenti in avanti e all’indietro nel tempo, seguendo i pensieri dei personaggi che fanno riaffiorare i ricordi della loro vita passata, lasciandosi suggestionare da un colore, un suono, un’immagine…
Nel 1922 Virginia Woolf pubblica La stanza di Jacob, che narra in maniera ambigua ed enigmatica la storia di Jacob Flanders, attraverso sensazioni, memorie, emozioni, assumendo come punto di riferimento le “stanze” della sua breve esistenza, da cui deriva appunto il titolo.
Dopo questo primo “esperimento”, nel 1925 viene dato alle stampe un altro romanzo, altrettanto sperimentale: La Signora Dalloway.
La signora Dalloway disse che i fiori sarebbe andata a comprarli lei. Poiché Lucy aveva già il suo bel da fare. Bisognava tirar giù le porte dai cardini: venivano gli operai di Rumpelmayer. Eppoi, pensò Clarissa Dalloway, che mattinata! Limpida, come per farne dono ai bimbi su una spiaggia.
Che delizia! Che tuffo! Sempre, infatti, le aveva fatto questo stesso effetto, a quei tempi, allorquando, spalancata la porta finestra, con un lieve cigolio dei cardini, che ancora le pareva di udire, lei si tuffava nell’aria aperta, a Bourton.
Il romanzo è ambientato a Londra e comincia alle 10 del mattino di un caldo giorno di giugno del 1923, quando Clarissa Dalloway, una ricca signora cinquantenne, esce di casa per comprare dei fiori per la festa elegante che sta organizzando per la sera stessa. Passeggiando per le strade di Londra, nella sua memoria riaffiorano alcuni momenti della sua vecchia vita a Bourton, quando trascorreva l’estate spensierata, con gli amici di gioventù.
Tra questi vi era Peter Walsh, al tempo innamorato di lei e che proprio quel giorno torna a trovarla, dopo aver trascorso in India gli ultimi vent’anni della sua vita. Ovviamente anche questo ritorno, questo incontro, riporta a galla una serie di ricordi.
Ricordi in cui affiora un’altra figura importantissima per Clarissa, vale a dire l’amica Sally Seaton, una donna vivace, fuori dagli schemi da cui Clarissa era evidentemente attratta, sempre durante quegli anni giovanili.
Mentre Clarissa entra in un negozio di fiori, una macchina passa rumorosamente per la strada di fronte al negozio. Incuriosita, Clarissa guarda verso la strada e intravede Septimus Warren Smith, un reduce della prima guerra mondiale, e sua moglie Lucrezia, mentre stanno camminando.
Septimus è l’altro protagonista del romanzo: è un uomo che soffre di disturbi mentali, poiché durante la guerra ha visto il suo migliore amico Evans morire di fronte a lui; per questo motivo è costretto dalla moglie a farsi visitare dallo psichiatra William Bradshaw, che proporrà di internarlo in una clinica.
La sera inizia la festa di Clarissa, che è fierissima del risultato, tutti mangiano, conversano e si divertono, finché lo psichiatra William Bradshaw, arrivato in ritardo, porta a Clarissa la notizia della morte di Septimus che si è suicidato gettandosi dalla finestra.
I due, Clarissa e Septimus, non si conoscono, le loro vite si sfiorano appena, ma in realtà sono intimamente connesse.
Tutto il romanzo corre lungo due dimensioni. La prima coincide con il mondo interiore dei personaggi di cui si seguono i pensieri e le libere associazioni: passo dopo passo, ricordo dopo ricordo, ci vengono rivelati il loro passato, la loro interiorità, il loro personalissimo punto di vista sul mondo e sugli altri personaggi.
In questo modo il lettore vede ogni personaggio da dentro, ma anche da fuori, attraverso i pensieri e le percezioni degli altri. La traduttrice Nadia Fusini, una delle maggiori studiose di Virginia Woolf, scrive che La Signora Dalloway è solo in apparenza il racconto di una giornata, perché la voce narrante scava dei tunnel nella mente dei personaggi e ci porta a scoprire la loro interiorità.
Perché questa è la verità sulla nostra anima, il nostro sé, che abita come un pesce abita in mari profondi e solca le oscurità infilandosi tra i tronchi di erbacce giganti, negli spazi illuminati dal sole e ancora e ancora nell’oscurità, nel freddo, profondo, imperscrutabile.
Quella soggettiva è la dimensione preponderante, ma la realtà, ciò che è fuori dalle nostre teste, ovvero la società con le sue convezioni le sue regole, è qualcosa con cui bisogna fare i conti e spesso il mondo che sta fuori, spezza, irrompe nel flusso dei pensieri dei personaggi.
Questo irrompere della realtà, dell’oggettività nella soggettività, è simboleggiato dai rintocchi del Big Ben che scandiscono i momenti della giornata. Non a caso il titolo che Virginia Woolf aveva inizialmente dato a questo romanzo era Le ore.
Il tempo in questo romanzo è una dimensione fluida: si dilata e si espande attraverso i continui flashback che portano i personaggi avanti e indietro nel tempo; si contrae improvvisamente quando le lancette dell’orologio scandiscono e misurano le ore della giornata.
La parola tempo ha spaccato il suo guscio; ha versato le sue ricchezze su di lui; e dalle sue labbra caddero come conchiglie, come trucioli da un piano, senza che lui le facesse, parole dure, bianche, imperituro, e volò per attaccarsi al loro posto in un’ode al tempo; un’ode immortale al tempo.
La soggettività e l’oggettività sono due dimensioni in perenne conflitto e Clarissa Dalloway e Septimus Smith rappresentano due modi diversi di vivere questo conflitto. Clarissa Dalloway è infatti la tipica donna inglese dell’alta società: vive in una bella casa, è sposata con un uomo rispettabile, è un po’ snob e anche molto attenta alle apparenze, lei stessa lo ammette. Clarissa ha rinunciato alle emozioni forti e alle avventure di gioventù, ha allontanato sia Peter che Sally per sposare un buon partito e vivere in una bella casa… insomma Clarissa ha trovato il suo equilibrio.
Septimus al contrario decide di rompere le catene delle convenzioni di una società che esclude chi è diverso, folle, o comunque sopra le righe, ammettendo solo quello che il medico, il Signor Bradshow, chiama senso delle proporzioni. E poiché la fatica di vivere, la malattia, l’emarginazione, il fallimento sociale o personale, la solitudine non sono ammessi da questo senso delle proporzioni, Septimus decide di togliersi la vita.
Clarissa rimane turbata dal gesto di Septimus, perché se è vero che Clarissa ha scelto la vita, ciò non significa che questa pulsione di morte non sia presente anche in lei, come del resto in ciascuno di noi.
La morte era un tentativo di comunicare; le persone sentivano l’impossibilità di raggiungere il centro che, misticamente, le sfuggiva; la vicinanza si allontanava; l’estasi svaniva, si era soli. C’era un abbraccio nella morte.
La Signora Dalloway è un romanzo che è molto legato alla biografia dell’autrice: Clarissa è simile ad un’amica della madre che lei ha conosciuto da vicino. Nella sua bella casa Clarissa vive come una monaca e il suo matrimonio, pur essendo felice, non include la sfera sessuale, un po’ come il matrimonio tra Virginia e Leonard Woolf.
Anche l’attrazione di Clarissa per Sally ovviamente richiama l’esperienza personale dell’autrice. Infine la malattia di Septimus e in generale l’oscillare tra la morte e la vita è qualcosa che Virginia Woolf ha vissuto, come sappiamo, in prima persona.
La Signora Dalloway è un romanzo molto lirico e denso, tanto che ad una prima lettura si ha l’impressione di capire solo una parte di tutto quello che l’autrice voleva comunicare.
Non so cosa ne pensiate voi, ma per me Virginia Woolf è sempre stata e resta un’autrice difficile da leggere e con cui fatico ad entrare in sintonia, proprio per il suo modo di narrare così ripiegato sull’interiorità dei personaggi.
A mio avviso è necessario un momento di assestamento, per prendere le misure, per capire cosa si sta leggendo. Non solo quando si comincia la lettura, ma ogni volta che la si riprende tra le mani. Perlomeno a me è successo così: ho avuto bisogno ogni volta di rientrare in sintonia con la pagina ed immergermi e lasciarmi cullare nella dimensione in cui l’autrice vuole trasportarci.
Ma quando ci si immerge pienamente nella lettura e ci si lascia trasportare dalle sue onde, è impossibile non cogliere la ricchezza, la profondità del pensiero e dell’animo dell’autrice. Certo bisogna essere disposti ad ascoltarla.
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