Titolo: Il pane perduto
Autore: Edith bruck
Prima edizione: 2021
Lingua originale: Italiano
Casa editrice: La nave di Teseo
Pagine: 126
ISBN: 978-88-346-0451-9
Prezzo: 16,00
Valutazione: 4/5
Buongiorno lettori!
Finalmente, dopo una settimana fitta di impegni, riesco a ritagliarmi un momento per scrivere! Prosegue la rassegna di recensioni e video a tema Premio Strega, oggi è la volta di Edith Bruck , autrice del romanzo Il pane perduto, edito La nave di Teseo.
Edith Steinschreiber, in arte Bruck, è nata in Ungheria nel 1931. Cresce in un piccolo villaggio ed è l’ultima dei sei figli di una povera famiglia ebrea. Nel 1944 viene deportata ad Auschwitz e poi in altri campi tedeschi, finché verrà liberata nell’aprile del 1945. Nel 1954, dopo varie peregrinazioni, si trasferisce in Italia, a Roma, dove vive ancora oggi.
Edith Bruck esordisce come scrittrice nel 1954 e sceglie di usare la lingua italiana, una lingua straniera, con cui però si sente più a suo agio e riesce a raccontare con maggiore distacco e lucidità la sua esperienza dei campi di concentramento. Successivamente comincia a collaborare con alcuni giornali, si distingue come drammaturga, si mette alla prova come regista, girando due film, e traduce i più grandi poeti ungheresi.
In tutti questi anni non ha mai smesso di raccontare l’orrore della Shoah e Il pane perduto rappresenta proprio la sua ultima testimonianza.
Si tratta di un romanzo autobiografico in cui l’autrice ripercorre tutta la propria vita. Il racconto non comincia, come ci si potrebbe aspettare, dalla deportazione nei campi di concentramento, ma dalla tenera infanzia: un’infanzia fatta di scuola, di giochi con gli amici a piedi nudi per le strade polverose, di pranzi e cene in famiglia. Un’infanzia fatta anche di povertà, di sacrificio e, a volte, di freddo e di fame.
Mamma, cosa succede, perché non ci vogliono? Siamo anche noi ungheresi, no?
Piano piano Edith comincia ad essere vittima delle ostilità e delle discriminazioni che, in piena Seconda Guerra Mondiale, investono gli ebrei di tutta Europa, finché con tutta la famiglia viene deportata prima in un ghetto e poi ad Auschwitz.
Sembrava l’esodo dall’Egitto senza un Mosè, senza che apparisse l’eterno, e invece del Mar Rosso si aprirono con un rumore lacerante i vagoni per il bestiame, e la mandria umana venne spinta dentro con violenza.
Le sofferenze che l’autrice descrive nel capitolo dedicato alla vita nel lager sono quelle che purtroppo abbiamo imparato a conoscere grazie alle testimonianze di tutti i sopravvissuti: il lavoro duro e massacrante, la fame, la sete, il freddo, le esecuzioni e le violenze sommarie da parte dei nazisti, ma anche le violenze tra compagne che si rubano il pane di bocca, per istinto di sopravvivenza.
Noi non abbiamo né il Purgatorio né il Paradiso, ma l’Inferno l’ho conosciuto, dove il dito di Mengele indicava la sinistra che era il fuoco e la destra l’agonia del lavoro, gli esperimenti e la morte per la fame e il freddo.
Edith non rivedrà mai più suo padre, sua madre e uno dei suoi cinque fratelli. Fortunatamente però resta sempre insieme alla sorella maggiore, Judith, deportata insieme a lei. Le due si sostengono a vicenda e insieme riescono non solo ad aiutarsi e a sopravvivere alle difficoltà, ma anche a conservare quel briciolo di umanità e di amore che invece abbandonava tutti i deportati, spogliati della loro dignità e trattati come animali.
Il racconto di Edith Bruck non si conclude con l’arrivo dei russi e la fine della prigionia, ma prosegue con la descrizione di quanto è successo dopo, perché le sofferenze dei sopravvissuti, purtroppo, non finiscono insieme alla guerra.
Edith tenta di fare ritorno a casa, in Ungheria, ma si rende immediatamente conto che la guerra si è lasciata alle spalle cumuli di macerie e di rancore: impossibile ricostruire il nido familiare e tornare alla vita di “prima”.
Anche l’incontro con i fratelli maggiori non ha il sapore dolce che Edith e Judith si aspettavano: le due sopravvissute sono due fantasmi magri e grigi e l’abbraccio dei fratelli è freddo e distaccato: si è alzato un muro invalicabile a separare il resto del mondo, da chi ha vissuto sulla propria pelle il lager.
Forse è colpa mia, non mi trovo più bene da nessuna parte, non mi piace il mondo e non posso cambiarlo.
Nemmeno in Israele l’autrice riesce a sentirsi a proprio agio e a trovare la propria dimensione: è difficile sentirsi al sicuro in un mondo che ti ha trattata come un rifiuto. Edith comincia a viaggiare al seguito di una compagnia di ballo che si sposta un po’ per tutta l’Europa ed è proprio in questi anni che comincia ad emergere anche la sua vocazione letteraria: sente l’esigenza di scrivere e di mettere nero su bianco le sue memorie.
Arrivata a Napoli la colpiscono il calore dei luoghi e l’accoglienza della gente, quindi decide fermarsi, impara l’italiano e capisce che quella sarà la lingua in cui proverà a scrivere e a realizzare il suo sogno di sempre. Trasferitasi a Roma, incontra l’uomo che sarà suo marito, amato per oltre sessant’anni, il poeta regista Nelo Risi, e nel frattempo diventa una nota e conosciuta scrittrice.
Il romanzo si conclude con una lettera a Dio, tanto semplice quanto struggente, perché racchiude in poche pagine tutte quelle domande che chiunque si pone: Dio esiste? E se esiste, come ha potuto lasciare che il suo popolo venisse martoriato a tal punto? Che senso ha la mia vita? Ma soprattutto c’è un motivo se sono sopravvissuta?
La scrittrice racconta la sua storia con uno stile asciutto, essenziale, ma allo stesso tempo incisivo ed evocativo. È il racconto intimo di un’odissea che, dopo la tragedia dei campi di concentramento e il totale il senso di smarrimento che ne è scaturito, ha portato l’autrice a trovare una nuova casa e a dare un senso a tutto il suo viaggio, tramandando alle generazioni future il ricordo del capitolo più terribile della storia del Novecento.
Consigliato!